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QUESTIONE DI STELLE

Data: 24-10-2025, in Commenti al Vangelo

domenica XXX - p. Ermes Ronchi

In quel tempo, Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri: «Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”. Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”. Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato». Lc 18,9-14

QUESTIONE DI STELLE

Il pubblicano si batte il petto perché non è contento, vorrebbe cambiare la sua vita, su di una misura più alta. Non sa più dov’è la sua stella, l’ha persa e vuole incamminarsi a cercarla.

Due personaggi salgono al tempio a pregare: un fariseo devoto e buon cittadino, che paga le decime anche più di quanto dovuto, digiuna il doppio di quanto richiesto, e prega. E un pubblicano, un pubblico trasgressore della legge, uomo di denaro e di potere.

Il primo, ritto davanti all’altare, inizia ringraziando, ed è il modo giusto; ma poi sbaglia tutto, perché non fa che innalzare un monumento a se stesso; non vuole provare ad alzare la sua vita all’altezza di Dio, ma abbassare Dio alla sua misura.

E raddoppia lo sbaglio aggiungendo: io non sono come gli altri, tutti imbroglioni, ladri, falsi, disonesti. Io sono molto meglio. Ma non si può lodare Dio e disprezzare i suoi figli; è ateismo dire preghiere e al tempo stesso denigrare, umiliare, accusare.

Si possono osservare tutte le regole formali della religione, “ma guai a quelli che pagano la decima della menta, dell’aneto e del cumino, e poi trasgrediscono giustizia, compassione, fedeltà” (Mt 23,23). Guai ai formalisti, che hanno cura per le più piccole rubriche e disprezzo per l’uomo.

Ed ecco il pubblicano, un grumo di umanità ricurva in fondo al buio del tempio, e della sua vita: fermatosi a distanza, si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”.

Non sa neanche tanto cosa dire, ma mette in campo tutto: corpo, cuore e voce; ne fa uscire una supplica, dove sorge un piccolo termine che cambia tutto: «tu», «Signore, tu abbi pietà di me peccatore».

E sotto quelle parole affiora tutto il non detto di una vita: “Sono un ladro, è vero, ma così non sto bene, non sono contento. Vorrei essere diverso, ma non ci riesco, non ce la faccio ancora, ma tu abbi pietà e aiuta”.

Lui tornò a casa sua giustificato. Perché l’altro no?

Perché il fariseo ha continuato a far ruotare tutto attorno a un altro piccolo termine seduttore: ‘io’, io pago, io digiuno, io... In fondo non prega Dio, ma l’immagine di sé proiettata nel cielo, una maschera che deforma il volto di Dio.

La parabola ci rivela due regole della preghiera, semplici come quelle della vita.

1. Se metti al centro l’io, nessuna relazione funziona. Non nella coppia, non con i figli o in comunità, tanto meno con Dio. Il tu viene prima dell’io.

2. Si prega non per ottenere ma per incamminarsi ed essere trasformati.

Il pubblicano tornò a casa perdonato, non perché più onesto o più umile del fariseo (Dio non si merita, neppure con l’umiltà) ma perché si apre – come una porta che si apre al sole, una vela che si inarca al vento – a Dio che entra in lui, con la sua misericordia, questa straordinaria debolezza di Dio che è la sua vera onnipotenza.

Il fariseo non vuole assolutamente cambiare, lui è a posto, sono gli altri a essere sbagliati, e forse un po’ anche Dio.

Il pubblicano invece si batte il petto perché non è contento, vorrebbe cambiare la sua vita, su di una misura più alta. Non sa più dov’è la sua stella, l’ha persa e vuole incamminarsi a cercarla.

Se smetto di cercare la mia stella, per me finisce il cielo.