domenica 18 agosto - p. Ermes Ronchi
In quel tempo, Gesù disse alla folla: «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo». Allora i Giudei si misero a discutere aspramente fra loro: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?». Gesù disse loro: «In verità, in verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Gv 6,51-58
XX domenica Gv 6,51-58
IL SILENZIO UMILE DEL PANE
Chi mangia la mia carne vivrà in eterno. La vita eterna è la vita stessa dell’Eterno, dove ritrovi anche il volto stupefatto di tua madre quando ti ha preso in braccio la prima volta, e il sorriso del povero che hai soccorso.
Il vangelo continua il racconto del durissimo conflitto di Cafarnao, quando, di fronte alla crisi, il Rabbi alza la posta e scopre le carte, con una pretesa che gli fa dire: solo io so chi è Dio.
Non lo sanno i profeti, non lo sanno i rabbini. Io solo, perché io e Dio siamo una cosa sola. E ce ne rovescia l’immagine: Ti avvicini a lui diventando umano, toccando piaghe e dolori, e non riempendo la vita di riti, preghiere e pensieri devoti. Ma facendoti a tua volta pane, un pezzo di pane buono spezzato per la fame e la pace del mondo.
Poi, in otto versetti, ripete altrettante volte: chi mangia la mia carne vivrà in eterno. L’eternità è qualcosa che interessa sempre meno i credenti, forse perché vista come durata e non come intensità.
La vita eterna non è quella misurata su di una lunghezza indefinita, e che può apparire un po’ noiosa, la vita eterna è la vita stessa dell’Eterno. E allora tu capisci che nella vita dell’Eterno ritrovi il pulsare delle stelle, gli abissi dei mari, l’esultanza degli amanti, il grido vittorioso del bambino che nasce, i tamburelli di Miriam mentre il popolo attraversa il mar Rosso. C’è anche il volto stupefatto di tua madre, quando ti ha preso in braccio la prima volta, e il sorriso del povero che hai soccorso.
Gesù ha scelto il pane come suo simbolo perché se c’è una cosa che sa di vita, è proprio il pane. E perché allora ci deve supplicare per otto volte: prendete e mangiate?
Perché abbiamo mangiato male prima!
Perché la vita ci ha regalato traumi da togliere il fiato, e sotto sotto pensiamo che nessuno dia niente per niente, che l’amore vada meritato: cosa dovrò dare in cambio a Dio? Che prezzo devo pagare, in fatiche, sacrifici, impegni?
Non c’è nessun prezzo da pagare, niente da dargli in cambio, niente. Dio non si compra e non si merita, si accoglie. E vederlo mentre sorridente mi viene incontro, felice che io sia lì!
Non mi chiede in cambio nulla, se non un cuore largo, e il mio fiorire in pienezza, e magari un piccolo grazie per la danza fatta insieme.
E poi nutrirmi di lui, di carne e sangue, due termini che racchiudono tutta la sua umanità, ci sono le sue mani di carpentiere profumate di legno, le sue lacrime, le sue passioni, gli abbracci dati e ricevuti. E dice: prendete il mio modo di abitare la terra, di entrare nelle case, di chiedere acqua alla samaritana, di far scendere Zaccheo dall’albero, di toccare gli intoccabili, di non mandare mai via nessuno.
Mi ha cercato, mi ha atteso. Si dona. Io posso solo accoglierlo, stupito e confuso, perché prima che io gli dica “ho fame”, sento lui dirmi: prendi! Mangia! Nutriti di me, come un bimbo che nel grembo della madre si nutre del suo sangue.
Ed entra in me come pane, si trasforma in me, mi trasforma in lui, diventiamo una cosa sola. Noi ci attendiamo segni grandiosi e Gesù ce ne rovescia l’idea: Dio viene e non si impone, scompare nel silenzio, si dissolve nell’umiltà del pane.
Quel suo pane che sa di vita, perché la nostra vita sappia di pane.
Il nostro compito è non andarcene da questo mondo senza essere prima diventati un pezzo di pane buono, spezzato per la fame di qualcuno, per la pace di tutti.