Domenica XXV - 24 settembre - p. Ermes Ronchi
«Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all’alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna. Si accordò con loro per un denaro al giorno e li mandò nella sua vigna. Uscito poi verso le nove del mattino, ne vide altri che stavano in piazza, disoccupati, e disse loro: “Andate anche voi nella vigna; quello che è giusto ve lo darò”»(...)Matteo 20,1-16
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LA GIOIA DOPPIA
Non fermarti a cercare l’equivalenza della paga, è un dettaglio, osserva piuttosto l’incremento di vita inatteso che si espande su te e sulle tue relazioni.
Finalmente un Dio che non è un padrone, fosse anche il migliore di tutti. È altra cosa: è il Dio della bontà senza perché, che trasgredisce le regole del mercato, che ancora sa sorprenderci.
In questa parabola è il signore della vigna, che fra tutti i campi è quello dove il contadino investe più passione e più attese, con pazienza e intelligenza. È il lavoro che più gli sta a cuore: per cinque volte infatti, da mattina a sera, esce a cercare lavoratori, pressato da un motivo che non è il lavoro, tantomeno la sua incapacità di calcolare le braccia necessarie.
C'è dell'altro: il padrone si interessa di quegli uomini, più ancora che della sua vigna. Perchè ve ne state qui, senza far niente? Il lavoro è la vostra dignità!
Un Signore che si leva contro la cultura dello scarto, che vede i suoi grappoli colmi di sole, noi, a rischio di vendemmia.
Con la sera arriva il momento più atteso, quello della paga. Primo gesto contromano: il fattore comincia dagli ultimi, che hanno lavorato un'ora soltanto. Secondo gesto contro logica: paga un'ora sola quanto una giornata di dodici.
Eppure sono solidale con gli operai della prima ora che protestano: non è giusto dare la stessa paga a chi fatica sotto il sole e a chi lavora soltanto un’ora. È vero: non è giusto. Ma la bontà va oltre la giustizia, che da sola non basta per essere uomini. Neanche l’amore è giusto, è un’altra cosa, è di più.
Questione di bontà. Che ci svela una grettezza di cuore incapace di godere del bene toccato ad altri. Eppure, se Dio va oltre il contratto con gli ultimi, non può farlo anche con i primi?
Lo sconcerto verso l'agire di Dio dipende dal posto che ci attribuiamo in questa parabola. Se l'operaio della sera lo sento come mio fratello, allora sono felice con lui e con i suoi bambini, per la paga eccedente. Se invece mi ritengo operaio della prima ora, se mi sento un cristiano esemplare, allora mi disturba la retribuzione uguale data a chi ha fatto molto meno di me.
Drammatico: si può essere credenti e non essere buoni! Così fecero i farisei.
Perché non si accende la festa davanti a tanta bontà, perché non sono felici tutti, i primi e gli ultimi? Perché non sanno vedere che gioire con gli altri raddoppia la gioia? Perchè la felicità viene da uno sguardo buono sulla vita e sulla gente.
Non fermarti a cercare l’equivalenza della paga, è un dettaglio, osserva piuttosto l’incremento di vita inatteso che si espande su te e sulle tue relazioni.
“L'uomo ragiona per equivalenza, Dio per eccedenza” (Card. Martini). La giustizia umana è dare a ciascuno il suo, quella di Dio è dare a ciascuno il meglio. Il perché di questa eccedenza sta nelle evidenti ragioni dell'amore, che non cerca mai il proprio interesse (1Cor 13,5) e che so mi sorprenderà, alla sera della vita, come inatteso e dolcissimo grappolo.