Radice è il nome del figlio
Nella settimana dedicata all'enciclica, dal 22 al 29 maggio, condividiamo questo articolo pubblicato su Avvenire sabato scorso, 14 maggio.
Luigino Bruni sabato 14 maggio 2022
Radice è il nome del figlio
Si potrebbe attraversare tutta la Bibbia inseguendo i suoi alberi e le sua piante. Sarebbe un viaggio meraviglioso. Anche se, misteriosamente, non troviamo piante sull’Arca di Noè ma solo animali, come se gli alberi non condividessero la stessa vita e la stessa morte di tutti gli altri esseri viventi, alberi e piante sono protagonisti essenziali dei racconti biblici - querce, qiqajon, vigne, fichi, cedri, sicomori, ginestre, mandorli, roveti… Le civiltà antiche erano molto affascinate dalla diversa intelligenza delle piante e del mondo vegetale. Intercettavano i loro linguaggi diversi, erano immerse dentro lo stesso ritmo della vita, non andavano troppo veloci, e quindi potevano allineare la loro anima con quella degli altri viventi. Intuivano che lo spirito della vita che scorreva dentro gli alberi era lo stesso spirito che li abitava e che riempiva il mondo. Sapevano che gli alberi e i boschi avevano molta sapienza da insegnare. Erano miti e totalmente vulnerabili, non fuggivano davanti al pericolo, ma erano anche fortissimi quando arrivava la tempesta, il terremoto o l’inondazione. Sentivano che tutto era in un misterioso rapporto d’amore con tutto. Tra tutte le piante i grandi alberi erano quelli più affascinanti. Li vedevano crescere verso il basso e verso l’alto, sprofondare nel sottosuolo assetati di buio e arrampicarsi verso il cielo avidi di luce. Morivano ogni autunno e risorgevano in ogni primavera, ed erano i primi segni e "sacramenti" della gratuità generosa della natura e della vita che ci ama oltre i nostri meriti - gli alberi non sono meritocratici. Le stelle erano troppo lontane e difficili da decifrare, ma tutti, quando si mettevano all’ombra di un grande albero e guardavano all’insù, in quella immensità, che era già immensa quando erano ancora bambini, annegavano e avvertivano un fremito d’eternità. E imparavano qualcosa dell’infinito e degli dèi. Ma all’uomo antico per comprendere i linguaggi e i segni della vita non bastavano le ore di veglia, avevano bisogno del sonno e dei sogni. Perché quando chiudevano gli occhi cadevano i limiti e i vincoli di esistenze difficili e quasi sempre tristi, e tutto, a occhi chiusi, diventava possibile. E parlavano con angeli, demoni, antenati, qualche volta con Dio. Con il disicantamento del mondo abbiamo dimenticato come si chiudono gli occhi, ma ne restano alcune tracce nei sogni dei poveri e in quelli stupendi delle nonne. A Napoli sonno e sogno sono la stessa parola. Il quarto capitolo del libro di Daniele inizia con un altro sogno di Nabucodònosor, che lo spaventò ancora. Ordinò a tutti i sapienti, gli astrologi e i maghi di Babilonia di spiegargli il sogno, ma non ci riuscirono. Infine giunge Daniele, e il re gli narra il suo sogno: «Io stavo guardando, ed ecco un albero di grande altezza in mezzo alla terra. Quell’albero divenne alto, robusto, la sua cima giungeva al cielo ed era visibile fino all’estremità della terra. Le sue foglie erano belle e i suoi frutti abbondanti e vi era in esso da mangiare per tutti. Le bestie del campo si riparavano alla sua ombra e gli uccelli del cielo dimoravano fra i suoi rami; di esso si nutriva ogni vivente» (Daniele 4,7-10). Un concentrato di simboli e di parole. In quella cima che sfiora il cielo rivive l’immagine di Babele, che apparecchia al lettore biblico un ambiente di potere e di superbia (hybris). Quell’albero che nutre "ogni vivente" ricorda l’albero della vita, con cui si apre (Genesi) e si chiude (Apocalisse) la Bibbia. È anche una immagine della antica tradizione dell’albero cosmico, che ritroviamo in leggende e miti di molti popoli (es. Yggdrasill). Il sogno continua e raggiunge il suo lato buio: «Ecco un vigilante, un santo, scese dal cielo e gridò a voce alta: "Tagliate l’albero e troncate i suoi rami: scuotete le foglie, disperdetene i frutti: fuggano le bestie di sotto e gli uccelli dai suoi rami. Lasciate però nella terra il ceppo con le radici, legato con catene di ferro e di bronzo sull’erba fresca del campo; sia bagnato dalla rugiada del cielo e abbia sorte comune con le bestie sull’erba della terra"» (4,10-12). La grande cultura babilonese e quelle che la seguirono in Israele (persiana e greca) sapevano che le radici erano il cuore di un albero. Osservando la vita degli alberi avevano capito che il centro della vita vegetale non stava né in alto né nel grande e forte tronco, ma era umilmente nell’humus, nel buio, nel regno dell’invisibile. E allora un virgulto può fornire anche da un ceppo (come il germoglio di Jesse). Neanche il grande albero abbattuto è estraneo alle leggende (Kalevala, per esempio). Ma il lato oscuro del sogno non termina con l’abbattimento dell’albero. Il vigilante (una figura simile ad un angelo, molto amata dagli apocrifi dell’Antico Testamento) continua a parlare: «Si muti il suo cuore e invece di un cuore umano gli sia dato un cuore di bestia; sette tempi passino su di lui. Così è deciso per sentenza dei vigilanti e secondo la parola dei santi» (4,13-14). Narrato il suo sogno, il re attende da Daniele l’interpretazione, che, dopo qualche esitazione, arriva: «L’albero che tu hai visto, alto e robusto, la cui cima giungeva fino al cielo ed era visibile per tutta la terra … sei tu, o re, che sei diventato grande e forte" (4,17-19). Sei tu, o re: una parola che ricorda da vicino quella tremenda e stupenda pronunciata dal profeta Natan dopo aver narrato al re Davide la parabola della pecorella rapita: "quell’uomo sei tu" (2 Sam 12,7). I profeti non hanno paura di chiamare i potenti per nome e di usare la seconda persona singolare, anche e soprattutto quando devono comunicare un messaggio difficile - è nelle interpretazioni oneste dei sogni scomodi per i capi che i veri profeti si rivelano radicalmente diversi dai falsi. L’albero grande, esteso su tutta la terra, un albero buono e fecondo, è dunque il regno di Nabucodonosor. A questo punto abbiamo gli elementi per seguire l’esegesi di Daniele del resto del sogno: «Tu sarai cacciato dal consorzio umano e la tua dimora sarà con le bestie del campo; ti nutrirai di erba come i buoi e sarai bagnato dalla rugiada del cielo; sette tempi passeranno su di te» (4,22-23). L’albero abbattuto è il re, è il suo regno di cui sarà privato, verrà cacciato dalla città e vivrà come bestia in mezzo alle bestie. Sette tempi (anni?) dovranno passare, e il numero sette è il numero che dice un tempo indefinito ma comunque lungo. E quindi Daniele conclude la sua spiegazione: «L’ordine che è stato dato di lasciare il ceppo con le radici dell’albero significa che il tuo regno ti sarà ristabilito, quando avrai riconosciuto che al Cielo appartiene il dominio» (4,23). Quella morte non sarà per sempre. La radice è rimasta viva, l’angelo ha abbattuto solo il tronco. Il sogno del re e l’interpretazione di Daniele sono allora un insegnamento sul potere. La Bibbia ha una idea coerente sul potere dei re, qualche volta rappresentata con l’immagine del grande albero (per esempio, in Isaia 14 ed Ezechiele 31). Sa che gli imperi, per loro natura, sono soggetti alla corruzione, perché diventare un albero troppo grande è intrinseco alla dinamica stessa del potere, ieri e oggi. Gli alberi del potere non sanno restare piccoli. E quando il potere diventa assoluto e il regno un impero, i re e i potenti si trasformano in bestie. Ma la Bibbia ci dice che esiste, nei cieli, qualcosa e Qualcuno più alto del più grande potere, che giudicherà i padroni di questo mondo, perché esiste una giustizia sopra l’albero più grande della terra. Non sempre riusciamo a vedere l’abbattimento dell’albero del potere che ci opprime, ma finché un oppresso aprirà una Bibbia e vi troverà questa profezia di Daniele, può sperare, in modo non vano, che la fine dell’impero arriverà davvero e inizierà una nuova liberazione. La Bibbia è anche il dono di una speranza di ultima istanza, quando passano "molti tempi" e i potenti continuano a crescere, e restano bestie. Va poi notato che la descrizione che il libro di Daniele ci fa dell’impero babilonese non è quella di un potere crudele e ingiusto. Quell’albero porta frutti e nutre, e il tono del dialogo tra il profeta e il re è reciprocamente cordiale e gentile - è sempre forte, soprattutto in questi giorni, vedere Daniele che dialoga con un re oppressore, e, parlando, riesce a umanizzarlo e ad addomesticare i suoi incubi. Il messaggio del sogno dell’albero non è allora rivolto soltanto al potere eccessivo, sbagliato e crudele. Il suo è un discorso etico su ogni potere, anche su quelli che, soprattutto all’inizio, non ci appaiono particolarmente iniqui e spietati, inclusi i poteri spirituali e religiosi. Anche gli alberi buoni e fecondi diventano un giorno troppo alti e larghi e devono essere abbattuti, perché se non vengono abbattuti si guasta anche la radice. L’abbattimento dell’albero può diventare, e spesso diventa, la salvezza della radice e di se stesso: non solo la radice viva salva il tronco mozzato, ma è il ceppo nudo che custodisce la sua radice. Solo gli alberi grandi abbattuti possono conoscere una nuova vita. C'è un momento quando un impero – una persona, una comunità, una impresa … – supera la soglia critica in altezza e larghezza. Questa soglia è invisibile, anche perché i buoni e molti frutti hanno un effetto oppiaceo e impediscono di vedere che la grandezza è diventata eccessiva, che la benedizione sta diventando maledizione. Si cresce troppo, naturalmente, pensando di fare la sola cosa buona, convinti in buona fede che i grandi successi siano segni della verità della nostra storia. Ci dimentichiamo il piccolo gregge, le beatitudini, il granello di senape, e ci identifichiamo col grande albero, che crediamo sia più grande della terra. Se un giorno, una volta oltrepassata la soglia (che si oltrepassa sempre), arriva qualcuno o qualcosa che fa crollare l’albero, quest’abbattimento può contenere la sola salvezza possibile. All’albero e ai suoi abitanti tutto parla solo di morte, ma se la radice resta viva quella croce può ancora fiorire. Il messaggio del sogno è molto chiaro su come salvare la radice: la radice non è il passato dell’albero, è il suo futuro. Quando l’albero finalmente cade, non ci si salva salvando il grande passato ma custodendo un piccolo futuro. È la logica profetica del "resto": la radice è quel resto fedele che tornerà dopo l’abbattimento. La salvezza è un verbo declinato al futuro. Il resto che torna è un bambino, è un figlio, è il nome del figlio di Isaia - Seriasub: "un resto tornerà" (Is 7,3). La radice è il domani dell’albero, non il suo ieri.
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